Sono nato in un giorno di aprile nell'anno millenovecentosessantacinque, l'anno del Concilio Vaticano II. Ne porto ancora i segni. Sono nato a Roma, da genitori e nonni abruzzesi, molisani e veneti. Mi sento però abruzzese fino al midollo. Ho sposato Chiara,
triestina purosangue con nonni ferraresi, liguri e "levantini". Un gran casino.
Ecco perché, forse, mi sento nomade fin dalla nascita.
Sono giornalista per professione, ma suono, compongo, arrangio, scrivo, immagino,
invento, creo, insomma accarezzo
i colori dell'anima come più mi aggrada. Anche se questo costa.
Sento casa mia il Mediterraneo, i colori dell'altra sponda, la saudade portoghese,
il ponentino romano, le osterie che non ci sono più, la costa bretone e il malto scozzese,
i prati irlandesi e il flamenco sivigliano.
Sento casa mia il respiro della Comunità di Bose di Enzo Bianchi,
il prosciutto tagliato a pezzetti di Erri De Luca,
le pagine nobiliari di Jean D'Ormesson e quelle medievali di Umberto Eco,
un maestro che non c'è più e a cui devo molto, Paolo Giuntella,
sento parte di me la chitarra di Pat Metheny e John McLaughlin,
il duduk di Djivan Gasparian, le percussioni di Trilok Gurtu e le tabla di Zakir Hussein,
il sax di Jan Garbarek, le voci degli Hilliard Ensemble e gli archi dei Kronos Quartet,
le voci popolari dei Muvrini, la gaita di Carlos Nunez e le uillean pipes dei Chiefthains,
il sound celtico dei Capercaillie,
l'oud di Anour Brahem e l'arpa di Andreas Wollenveider,
la kora di Salif Keita e la voce di Yossou n'dour.
Ivano Fossati e Fabrizio De Andrè. La pianta del tè e Creuza de mä.
Girerei città, porti e montagne con registratore penna e taccuino.
Sempre, per poi tornare a casa. Quartiere a nord di Roma.
E ripartire di nuovo. Prima o poi lo farò.