La tradizione ebraica della kasherut indica i cibi che si possono consumare perché conformi alle regole della Torah. Ma oltre a questo, il cibo ebraico ha prodotto un'enorme mole di storielle, divieti, ricette e prescrizioni che Ovadia ripercorre con la consueta miscela di umorismo e santità: cullandoci tra pasti e digiuni, tra falafel, molokheya, hommus e altre leccornie, tra antiche osterie e contaminazioni culinarie, e una musica che accompagna l'ospite a tavola, con l'ironia tipica dell'ebreo errante. Per un viaggio che guarda al cielo con il gusto della terra. Un viaggio dalla manna del deserto, il cosiddetto «pane degli angeli», fino a Pesakh, la Pasqua, dove un Gesú ebreo mangia agnello, pane azzimo, erbe amare e dessert.
La storia è nota a pochi.
A ogni elezione di un nuovo papa, una delegazione della comunitàebraica romana si recava nei sacri palazzi portando un'antica pergamena sigillata che, regolarmente, il sommo pontefice rifiutava di accettare. Finché, un giorno, il papa, d'accordo con il rabbino capo, decise di consultarne il contenuto. L'intestazione recitava: «Il conto dell'Ultima Cena». Non si sa con esattezza l'ammontare dell'importo richiesto per quel celebre pasto, anche perché, per risapute ragioni, gli apostoli e Gesú non riuscirono a onorare il debito. Però si sa qualcosa riguardo a quell'ultima cena.
Parte da qui il viaggio di Moni Ovadia all'interno della tradizione kasher. La casa dell'ebreo errante Moni Ovadia, che tra l'altro è vegetariano, è un'enorme cucina affacciata sul mondo. Dove lui se ne va in giro tra una «fiera dell'Est» e regole kasher, insegnamenti rabbinici e storielle ebraiche, ricette tipiche e cucina che se la fa con la religione.
Nel girovagare tra salse mediterranee, melanzane, ceci e uova, incontriamo l'arzilla Janette, una egiziana novantenne che ci spiega la cucina dell'esilio e della diaspora, insieme alle ricette di Edith, unica depositaria della tradizione familiare sefardita di casa Ovadia. E un atteggiamento all'assaggio che è prima di tutto interiore, predisposizione dell'animo di chi è abituato a guardare al cielo attraverso gli odori e i sapori della terra.
Perché, in fin dei conti, dovremmo tutti imparare a essere kasher, ovvero adatti alla nostra dignità di essere umani.